In Lovecraft l’orrore scaturisce dalla presa di coscienza di quanto sottile sia il reale. Dietro a ciò che consideriamo normale si cela un universo alieno, folle, non antropomorfo, con cui i protagonisti di Lovecraft si trovano loro malgrado a fare i conti. In un romanzo come At the Mountains of Madness, il senso di inquietudine del protagonista nasce – tra le altre cose- dalle architetture delle città che incontra, architetture che negano alla radice non solo le proporzioni umane ma, in una certa misura, le stesse leggi fisiche. Come spesso accade nei romanzi e nei racconti di Lovecraft, non è ciò che viene visto in sé ad essere orribile, bensì ciò che viene suggerito. L’idea di un altro ordine – un ordine ultimo, più profondo di quello di cui facciamo normalmente esperienza – in cui gli essere umani non sono altro se non un elemento secondario. Ciò che terrorizza è, in poche parole, che noi non si sia “a casa nell’universo”.
Anche la realtà di Dick è una realtà sottile, ma quando si parla di realtà in Dick, essa è sempre soggettiva, dipendente dall’osservatore. In Dick, rispetto a Lovecraft, manca il fondo. Nei suoi romanzi il fulcro è spesso il deterioramento della realtà del protagonista, pezzo a pezzo, la negazione di ogni punto di riferimento finché il malcapitato non si ritrova completamente in balia di eventi che non può comprendere. Che si tratti di Le Tre Stimmate di Palmer Eldritch, di Ubik o di Uno Oscuro Scrutare, il meccanismo è in fondo lo stesso. Porre il protagonista su di un piano inclinato ed osservarlo scivolare inesorabilmente verso il bordo.
Già qui troviamo un interessante punto di contatto. L’uno e l’altro indagano infatti i confini del reale, partendo entrambi dall’assunto che ciò che noi chiamiamo realtà non sia il fondo ultimo della nostra esperienza. Che la realtà non sia, in altre parole, una base solida su cui poggiare i piedi, bensì qualcosa che può rivelarsi friabile, aprendo di fronte a noi porte su mondi incomprensibili.
Ma questo non è l’unico punto di contatto tra i due autori. Dick e Lovecraft furono entrambi, a loro modo, degli outsider. L’uno e l’altro vissero con dolore l’appartenenza alla letteratura di genere. Dove però Dick tentò a più riprese di allontanarsene (senza troppo successo), Lovecraft non rifiutò mai l’etichetta di autore di letteratura fantastica, ma contestò alla radice che il fantastico fosse da considerare narrativa di serie B. Nelle opere dell’uno e dell’altro si avverte poi una stessa urgenza, uno stesso bisogno di raccontare, un tornare ossessivamente sugli stessi temi e negli stessi territori, come se l’esigenza iniziale non riuscisse mai a essere soddisfatta,
Il rapporto di questi due autori con il genere meriterebbe ben altro spazio per essere indagato. A volo d’uccello si può comunque dire che entrambi, a tutt’oggi, non trovano una collocazione certa. Sicuramente Lovecraft si è occupato di fantastico – se non di horror in senso stretto – e Dick di fantascienza, ma entrambi sono a loro modo unici. A differenza, per dire, di Gibson, che ha creato un movimento, né Lovecraft né Dick hanno fatto altrettanto. Hanno mostrato ai loro colleghi possibilità inedite, sono stati spesso citati, ma non hanno creato un movimento. Forse perché troppo personali erano le ossessioni alla base della loro opera.
Le cose si fanno però davvero interessanti quando si considera il secolo in cui questi due autori hanno operato, e cioè il Novecento, un secolo in buona misura governato dalle ossessioni che – in modi diversi – hanno animato sia HPL che PKD. Il Novecento è stato infatti il secolo che ha messo in discussione la struttura stessa della nostra realtà. Sotto i colpi del secolo breve sono caduti uno dopo l’altro i fondamenti – fino a quel momento intoccabili – del reale. Si trattasse del tempo, del rapporto tra osservante e osservato, della natura dello spazio, dell’ovvia differenza tra materia ed energia o della struttura ultima di ciò che circonda, nulla si è salvato. E non si può neppure parlare di semplice ri-definizione. Il Novecento è stato si un secolo di grandi scoperte e di teorie fondamentali, ma credo si possa convenire che ha posto domande, più che fornire risposte (e non a caso, oggi la fisica tenta di riunire i pezzi, si tratti della teoria delle stringhe o delle dimensioni extra, cercando di ricomporre in un quadro unico ciò che il Novecento ha frammentato).
Gli abissi di Lovecraft e di Dick – la non centralità dell’esperienza dell’uomo, il confine labile tra soggettività ed oggettività, la natura non antropomorfa delle leggi che governano l’universo, ecc. – si sono manifestati in tutta la loro forza. Nella fisica moderna il territorio è talmente alieno da non poter essere descritto nel linguaggio corrente, ma soltanto nel linguaggio astratto della matematica. A dire che alcuni concetti e alcune intuizioni non sono riducibili alla nostra lingua, come le architetture delle città aliene di At the Mountains of Madness non sono riducibili ai nostri canoni. Ancora, è difficile non pensare a Dick mentre ci si addentra nel rapporto tra osservatore e osservato così come concettualizzato dalla fisica quantistica. L’idea che la linea di separazione tra ciò che avviene e chi osserva sia talmente sottile da sparire, che le due entità costituiscano un insieme, dove chi osserva agisce su ciò che osserva tanto quanto ciò che viene osservato influenza l’osservatore.
In poche parole, il pensiero occidentale, impegnato nella ricerca dei fondamenti del reale, ha scoperto che non esiste alcun fondo, ma solo una porta su uno strato ulteriore di realtà, in cui le nostre “verità intuitive”, si rivelano false e fuorvianti.
Mi piace allora pensare che due spiriti raffinati, fuori sincrono con i propri contemporanei, siano stati invece in perfetta sincronia con l’universo che li circondava. Mi piace credere, in altre parole, che qualcosa di gigantesco e alieno si sia piegato verso di loro per sussurrargli all’orecchio una storia da narrare.
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