mercoledì 30 marzo 2011
sabato 26 marzo 2011
Scoperti "hobbit" in Micronesia?
Nel 2003, nell’isola indonesiana di Flores, è stato rinvenuto lo scheletro di un ominino alto un metro e con un cervello che non raggiungeva i 400 cc vissuto 18.000 anni fa. Il reperto ha acceso un vivace dibattito tra gli antropologi. Alcuni, come gli scopritori, sostenevano la tesi che l’ominino rappresentasse il primo caso di nanismo insulare conosciuto nella nostra linea evolutiva – una condizione ben documentata in altre specie di mammiferi, come gli elefantini nani della Sicilia – e, conseguentemente, che appartenesse ad una specie diversa dalla nostra: Homo floresiensis; altri, invece, erano convinti che quei resti fossero di un individuo della nostra stessa specie ma malato: un microcefalo. La seconda tesi ha perso consistenza in breve tempo, perché nel medesimo sito archeologico sono venuti alla luce i resti di altri individui, vissuti tra 85.000 e 12.000 anni fa, e tutti di corporatura molto piccola. E se è fisiologico che in una popolazione ci siano degli individui malati, è assolutamente impossibile che una popolazione composta solo da individui patologici sia capace di sopravvivere per alcune decine di migliaia di anni.
Una prova ulteriore a favore dell’esistenza del nanismo insulare nell’umanità è venuta recentemente dal lavoro di una missione scientifica sponsorizzata dalla National Geographic Society, e composta da ricercatori della University of the Witwatersrand, della Rutgers University e della Duke University, che ha riportato alla luce nell’isola di Palau in Micronesia i resti di una popolazione, vissuta tra 3000 e 1400 anni fa, caratterizzata da modestissime dimensioni corporee.
Gli studi preliminari hanno evidenziato che questi piccoli individui condividevano con la nostra specie alcuni tratti morfologici, mentre altri li avvicinavano all’uomo di Flores – in particolare, il peso raggiungeva 43 kg nei maschi e 29 kg nelle femmine, ma il cervello era grande. E così essi, pur senza poter essere collegati filogeneticamente all’Homo floresiensis, testimoniano che anche le popolazioni umane, come quelle di altri mammiferi, possano aver acquisito in particolari condizioni ambientali delle dimensioni corporee molto ridotte: il nanismo insulare, appunto.
venerdì 25 marzo 2011
LE PAROLE DEL FUMETTO
di Antonino Rocca
Piccole riflessioni.. Sono tutte “parole disegnate” che hanno lo stesso valore delle “figure disegnate”; il loro “posto” il loro “peso”è determinante per il destino dell’intero racconto figurato. Devono avere una dimensione, uno stile grafico e una collocazione spaziale non casuale (errore frequentissimo nei fumetti dei principianti o di quelli distratti) ma coerenti con quelli dell’intera vignetta, e infine devono essere “espressive” della situazione in cui sono impiegate.
Le DIDASCALIE corrispondono di norma a quella che nel cinema si chiama “voce fuori campo”,spiegano descrivono, puntualizzano le situazioni illustrate. Storicamente le Didascalie hanno preceduto e dominato le nuvolette. All’inizio apparve (e in buona misura appare tutt’ora, tanto da essere oggetto di continue spericolate sperimentazioni) un problema piuttosto impegnativo mettere insieme in maniera coerente i personaggi e le parole ; si trattava di inventare una convenzione, di collaudare un tipo di racconto ibrido che rovesciava il sistema del racconto illustrato nella “illustrazione raccontata”, fatta di molte figure e poche parole.
Per questo, nei primissimi fumetti le sole parole usate furono quelle delle didascalie, collocate peraltro fuori dalla vignetta, in calce ad essa, a spiegarne il senso, riportando fra virgolette le parole pronunciate dai singoli personaggi. (in sostanza con la stessa funzione che didascalie avevano nel cinema muto).Peraltro anche dopo l’uso dei balloons, un grande fumettista americano come Harold Foster preferì tornare alle didascalie , anche se sistemate all’interno della vignetta, per non guastare la bellezza grafica
dei suoi Tarzan, e Prince Valiant, allo stesso espediente ricorreva Alex Raymond col suo Flash Gordon. Ma ancora oggi capita di trovare didascalie adoperate in maniera inusuale, in sostituzione del balloon, per esempio, quando si vuole raccontare facendo ricorso soltanto alla voce fuori campo o alle frasi “pensate” dal protagonista, o da uno dei personaggi che fa da voce narrante “in campo”, come accade in Will Eisner o nei racconti di Frank Miller che , come spari nel buio, fa emergere dal fondo scuro piccoli riquadri bianchi riempiti da brevissime frasi di commento alle situazioni immancabilmente gravide di nere tensioni.
I FUMETTI (come “balloons”) assai più delle didascalie sono state oggetto, nel tempo, di svariate quanto originali manipolazioni. (Paradossale la trovata di Yellow Kid , creato da R.F. Outcault, che parlava scrivendo le frasi sul suo camicione giallo).
Fra i nostri artisti contemporanei, vi è stato chi (come Moebius) ha addirittura rinunciato in varie occasioni all’uso dei balloons, ritenendo che il racconto illustrato stesso, da solo, per “come” era illustrato fosse sufficientemente “parlante”.
Si pone (si è sempre posto) comunque un problema principe:come evitare che il balloon si avverta come un “buco” (buco ch’è ancora più rischioso nel fumetto a colori per il contrasto forte fra la scritta su fondo bianco e il contesto cromatico che crea problemi maggiori rispetto alla più unitaria realtà del bianco-nero). Il fumettista allora ha cominciato a prestare maggiore attenzione alla collocazione spaziale del balloon all’interno della scenetta e alla forma e alla grafia della “cornice” e delle parole. All’inizio i patti erano solo tre: cornice continua: le frasi sono dette ad alta voce; linea di cornice tratteggiata: le parole sono dette sottovoce; linea a circoletti, a sbuffi di fumo: le parole sono solo pensate. Lo stile delle parole: era sufficiente che fossero leggibili. Poi sono cominciate le trasgressioni: della linea di cornice e del suo contenuto.
Che sono diventati non solo dichiarativi ma fortemente “espressivi” e il balloon è diventato sempre più disegno, nei casi più riusciti: anch’esso “figura”.( Esemplare, a tal proposito, la metamorfosi grafica inventata da Toppi nel suo “Myetzko” nel momento in cui la frase del fumetto si trasforma nella “cosa” di cui essa parla: nella sequenza di sette vignette, letteralmente, la parola diventa figura, personaggio).
A fini espressivi infatti, a seconda degli umori di chi “parla”, della drammaticità della situazione, il profilo delle le nuvolette esplode di rabbia in artigli aguzzi, o si frantuma, fuori di se, in bordi frastagliati, o dilata e si scurisce se sta gridando, o si allarga a dismisura attorno ad una sola parola a caratteri tondi e sottili se si sente abbandonata, chè anche i caratteri delle parole che stanno dentro il fumetto si deformano, piangono, gridano, si impauriscono assieme ai personaggi e ai loro travagli interiori ed esteriori, in una perfetta orchestrazione di segni.
Come di solito abbiamo scelto da un catalogo infinito un piccolo compendio di “parole” come invito al lettore a vedere con maggiore attenzione e gustare di più l’arte del fumetto
Volendo tuttavia sottolineare alcuni casi esemplificativi non possiamo non citare alcune soluzioni del nostro vecchio amatissimo Sergio Toppi, laddove, ad esempio allunga la codina dei balloons
come uno stelo floreale liberty e distribuisce i vari “buchi bianchi e rotondi” con un gusto decorativo inarrivabile, fino a farli diventare indispensabili protagonisti delle sue magistrali pagine in bianco-nero: e i buchi si riempiono di senso.
In altri casi, intenzionalmente la nuvoletta si vuole che funzioni come buco bianco su fondo nero a fini espressivi e decorativi, accade, ad esempio, su HellSpawn disegnato da Ashley Wodd ( piccole efficacissime cascate di buchi cadono giù lungo la pagina) e nei fumetti di Frank Miller.
Poi ci sono le nuvole liquide di Guido Crepax, quelle uncinate di Simon Bisley nel suo Giudizio su Gotham, quelle gelide stagliate da Vittorio Giardino e da tutti i fumettisti “chiaristi” che affidano al disegno lineare chiaro e pulito la loro maniera. Insomma a seconda dello stile ogni fumettista inventa i suoi balloons.
Ma fra tutte le parole disegnate quelle più ricche di invenzioni sono le ONOMATOPEE, le parole rumorose. Dapprima fu solo bang e zip, qualche gulp e smac, poi è venuto tutto il resto, col contributo determinante dei mangaka.
Il vecchio BANG era già esplosivo nelle bombe di Toppi che disegnava l’onomatopea facendo coincidere il profilo e la dimensione di ogni carattere alle schegge dell’eplosione, così la parola non solo letteralmente ma anche come figura, come disegno, scoppiava.
Ma poi al vecchio Bang hanno fatto seguito i vati Crack. Blam, Budda-Budda (la divinità della pace universale !) tarattattarattattatta takka takka eccetera eccetera, a seconda della possanza e della terribilità delle armi usate, così letali da riempire in serrati confronti grafici arrabbiatissime pagine intere, in primissimo piano, più importanti dei personaggi.
Pochi o nulli gli Smac sostituiti da più significativi silenzi o dai mugugni incredibili scritti dai giapponesi - insuperabili inventori di tutti quegli infiniti rumori che nessuna fantasia futurista avrebbe mai immaginato - e dai loro seguaci americani. Suoni strepiti sparatorie a non finire: ad ogni pagina scoppia la santabarbara. O tempora! Oh rumores !
mercoledì 23 marzo 2011
Villemard, l'uomo che immaginava il futuro
Il 2000 è già passato da oltre dieci anni, com’era immaginato un secolo abbondante fa? L’illustratore francese Villemard aveva prodotto una serie di tavole che andavano a ipotizzare le tecnologie e le innovazioni che, da lì ai successivi 100 anni, avrebbero coinvolo la vita quotidiana. Il risultato vi attende in fotogallery, con una raccolta recentemente pubblicata su Flickr.
Qualche anticipazione? Tutto volava e i robot spadroneggiavano per facilitare la vita, non perdetevi tutte le immagini.
Villemard seguiva i filoni di pensiero dell’epoca, in cui i romanzi di Jules Verne andavano per la maggiore: nel 2000 i trasporti sarebbero stati principalmente in cielo con macchinari personali leonardeschi (anche per i vigili del volo!), autogrill per il ristoro dei piloti e metropolitane sospese.
Ma di sicuro il progetto più affascinante è quello del treno super veloce da Pechino a Parigi, estremamente aerodinamico, che oltre un secolo dopo.
lunedì 21 marzo 2011
Intervista ad Alessio Maggioni
Ciao Alessio. La prima domanda che voglio farti è la stessa che ho rivolto ai lettori del blog: qual è il tuo personaggio preferito tra quelli di Vango?
Mi piace Zefiro, il monaco pirata, personaggio degno di un film western! (Tra l’altro mi ricorda un altro personaggio, molto più pirata che monaco, un amico/nemico di Corto Maltese, le cui storie sono una specie di bibbia per tutti i disegnatori di fumetti.)
E quale ti ha più divertito disegnare?
Direi la Talpa. È l’ultimo che ho realizzato, forse quello che contiene più elementi del mio stile, in particolare quelle pennellate libere a sinistra, che evocano senza descriverla un’ambientazione… e poi c’è il gatto! A me piace moltissimo disegnare animali.
Cosa si prova a dare un volto ai personaggi di un libro? Come arriva l’ispirazione?
In realtà quando leggo per conto mio non mi sovvengono immagini molto definite; altri disegni che mi sono stati ispirati direttamente da racconti sono più sull’astratto.
In questo caso ho lavorato nel modo più ovvio: cercando nel libro le varie descrizioni e rimanendo aderente ad esse. Attraverso alcuni episodi e dialoghi ho studiato anche il carattere dei personaggi, che nel disegno si rivela attraverso le espressioni e la mimica.
Toglimi un dubbio, ho notato una certa somiglianza tra Zefiro e de Fombelle… non è che l’hai usato come modello?
Eh, eh, una pura coincidenza!
O no? Segreto!
Conoscevi già i libri di de Fombelle?
No, veramente non ho mai frequentato granché la letteratura avventurosa, sono cresciuto invece con i romanzi di fantascienza. Comunque de Fombelle ha più o meno la mia età… quand’ero ragazzo io era ragazzo anche lui.
Quando hai iniziato a disegnare? Hai frequentato delle scuole?
Ho scoperto il disegno piuttosto tardi, pensa che prima studiavo matematica. Per qualche anno ho preso lezioni da un’artista catanese, Loredana Catania, che mi ha insegnato i fondamenti. Poi mi sono iscritto alla Scuola di Fumetto catanese patrocinata dalla Fondazione Montalbano, e qui mi sono specializzato nelle tecniche con l’inchiostro di china.
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Non sono un tipo molto pianificatore; vorrei avvicinarmi all’editoria per ragazzi, ultimamente ho realizzato delle illustrazioni in questo senso, e visiterò la fiera di Bologna a fine marzo. Intanto lavoro su delle storie a fumetti per una rivista realizzata da un gruppeto di autori catanesi, si chiama Fumetti al Cubo. Ah, a breve partirà un blog chiamato STOP THE MONKEY dove pubblicherò delle storie di fantascienza ambientate in un futuro dove la cultura è messa al bando. Un po’ sono ispirate a Orwell, un po’ al presente.
Dove possiamo vedere i tuoi lavori?
Se non volete venire a trovarmi a casa mia potete visitare il mio sito: albabet; altri disegni e anche storie a fumetti sono sul sito e sul blog della rivista di cui sopra: www.fumettialcubo.com www.fumettialcubo.blogspot.com.
Prima di salutarci, vuoi dire qualcosa ai lettori del blog?
Ai giovani lettori del blog mi permetto di dare un consiglio, antiquato ma sempre valido: non trascurate la lettura dei buoni vecchi libri, che possono regalare momenti di autentica felicità a chi sa immergersi nella fantasia.max
tratto dal sito leavventuredivango.it